mercoledì 13 febbraio 2008

Risposta a Enzo

Caro Enzo,
come ho avuto modo di dirti in altre occasioni, per me il prius del credere è credere nel senso del tutto. Se c'é un senso del tutto (e può anche non esserci) allora Dio esiste. E, se Dio esiste, può certamente aver avuto un rapporto particolare con Gesù, figlio del falegname (e non dello Spirito Santo come esplicitamente e candidamente afferma Panikkar nel testo ampiamente citato Tra Dio e il cosmo). Allora, noi cristiani possiamo benissimo pensare, sempre secondo Panikkar, che " il Cristo può essere considerato il simbolo – cioè la ricapitolazione o il riassunto - di tutta la realtà (l'Alfa e l'Omega di Theillard de Chardin). Ma anche il Buddha lo è e altri ancora”.

E perché dobbiamo escludere che Dio abbia voluto parlare ai beduini tramite Maometto? (anche se sulla diversità dalla figura di Gesù c’è molto da dire, come ho scritto nel blog).

martedì 12 febbraio 2008

Enzo dice: commento al commento

Caro Mauro,

sapere cosa sia esattamente accaduto non è dato saperlo, è vero, ma rimane il fatto che la mia fede si basa sulla testimonianza di alcuni "privilegiati" che hanno visto ed hanno cercato di trasmettere la loro esperienza (se mai un'esperienza può essere trasmessa). Non posso prescindere da questo. Mi sembra (ma forse interpreto male il tuo pensiero) che per te venga prima la fede nella resurrezione e poi il fatto, l'evento testimoniato. "Se Cristo non fosse risorto, vana sarebbe la nostra fede". Forse, perchè la nostra fede non sia vana, dobbiamo credere nella Resurrezione indipendentemente dalla testimonianza? Io completerei la tua affermazione in questo senso: oggi, come allora, ciascuno di noi può e deve sperimentare, nella fede, ciò che i primi discepoli sperimentarono come evento.
Caro Enzo, domani preciserò il mio pensiero.

Breve risposta al commento di Enzo

Caro Enzo,

le tue osservazioni sono giuste, ma devono necessariamente basarsi sull'assunto che quanto scritto nei vangeli, circa gli eventi post- resurrezione, possano essere presi alla lettera o quasi. Ora se c'è una cosa che mi è chiara, e che ho cercato di spiegare nel blog, è che, mentre quello che ho chiamato "l'orizzonte dei valori" dei vangeli attraversa indenne le pieghe del tempo senza perdere nulla, i fatti storici, in particolare quelli che riferiscono i fatti avvenuti dopo la morte di Gesù, cadono sotto l'alea del dubbio. Certo, qualcosa di sconvolgente deve essere accaduto se , dopo due millenni, ricordiamo ancora la morte di un certo Gesù sulla croce al tempo di Tiberio. Cosa esattamente sia accaduto non è dato saperlo sulla base dei vangeli: quanto è ricostruzione dei primi fedeli?, quanto, alla lettera, possiamo prendere ciò che è scritto? Non lo sappiamo e, probabilmente, nessun studio esegetico potrai mai appurarlo.
Ecco quindi che ciò che dice Panikkar, mi sembra risolutivo per superare ogni esegesi ed ogni dubbio storico. Oggi, come allora, ciascuno di noi può e deve sperimentare, nella fede, ciò che sperimentarono i primi discepoli. Noi possiamo avere un filo diretto, personale, con quell'esperienza. Se così non è, non può bastarmi la lettura dei vangeli, che noi pensiamo e speriamo siano stati ispirati, ma che, certamente, furono fissati da uomini. Come te, come me, come noi, uomini di oggi.

Enzo ha detto 12/02/2008


Caro Mauro,
rimandando per ora una valutazione complessiva su tutto il testo (bello, chiaro e stimolante) mi preme commentare la sezione VI-2: "La fede come fatto personale". Nonostante la mia grande considerazione per Panikkar, che mi ha illuminato su molti aspetti del nostro modo di essere cristiani, non sono d'accordo con lui quando dice:
"L'intero edificio cristiano non può poggiare sulla SOGGETTIVITA' di alcuni discepoli...non ci si può accontentare di avere fede nella fede di altri, fiducia nella testimonianza di alcuni privilegiati..."
L'esperienza del Criso risorto non è stata solo soggettiva, ma anche e soprattutto COLLETTIVA: tutti loro hanno mangiato con Lui, tutti lo hanno visto, e Tommaso non ha avuto bisogno di toccarlo e di mettere la sua mano nel costato per DOVER esclamare Mio Signore e mio Dio: tale ammissione, che scardina e capovolge tutte le categorie culturali e religiose di un ebreo osservante, identificando l'uomo Gesù con Dio stesso, non può che basarsi su un'esperienza sconvolgente ed incredibile, certo personale, ma condivisa nello stesso momento da tutti gli altri. Kung dice che non si tratta di un resuscitamento del corpo, ma dell'assunzione di Gesù in una realtà diversa. Sulla base della testimonianza dei Vangeli si tratta per me di entrambe le cose:le due realtà, quella fisica, del corpo, e quella "diversa", trascendente, indicibile, che a noi non è dato neanche immaginare,sono compenetrate e compresenti nel Cristo Risorto (e forse anche nelle nostre esistenze: lo stesso Panikkar fa notare che "l'eternità è l'altra faccia della temporalità".
12 febbraio 2008 4.18

martedì 29 gennaio 2008

Commento di Angelo

Caro Mauro,
ho letto tutto di un fiato l'ultima (spero solo in ordine di tempo) versione delle tue considerazioni sulla fede.Si tratta, a mio parere, di un apprezzabile tentativo di "mettere ordine", senza preconcetti o pregiudizi", in una materia di per sè tanto "scivolosa" e difficile da "maneggiare", oltre che nel "modo" in cui ciascuno di noi vive la propria fede, sì da aiutarci a mettere a punto il nostro modo di atteggiarsi di fronte ad essa. Credo sinceramente che tale tentativo meriti un serio sforzo di meditazione, che vada al di là di una semplice e superficiale lettura. Inviterei senz'altro gli amici a leggere e ad approfondire i temi da te sollevati.Per quanto mi riguarda, mi riservo di fare qualche commento su alcuni aspetti specifici.

giovedì 24 gennaio 2008

Fine del blog

Quest'ultimo post chiude il blog nel senso che un percorso, che continua, è stato mostrato. Se sarà stato utile anche ad una sola persona (oltre me) ne sarà valsa la pena. Chi volesse ricevere in forma "intera" tutto il blog (con qualche limatura e un ritmo leggermente diverso da quello di un blog), lo potrà avere mandando una mail al sottoscritto: mauro.magini@tiscalinet.it

l blog, tuttavia, verrà saltuariamente riaperto per commenti spot su questo o quello o su qualche domanda suscitata dal blog stesso

Roma 24/01/2008

4. Considerazione finale




“Venite..benedetti dal Padre mio; entrate nel regno che è stato preparato per voi fin dalla creazione del mondo. Perché avevo fame e mi avete dato da mangiare, avevo sete e mi avete dato da bere; ero forestiero e mi avete ospitato; ero nudo e mi avete vestito; ero malato e mi avete curato; ero in prigione e siete venuti a trovarmi.
E i giusti diranno: “Signore ma quando ti abbiamo visto affamato e ti abbiamo dato da mangiare, assetato..da bere…in prigione e siamo venuti a trovarti?
…In verità vi dico che tutte le volte che avete fatto ciò a uno dei più piccoli di questi miei fratelli lo avete fatto a me”
(Matteo 25, 34-40).

Ecco un punto di fondamentale importanza: se mai un giudizio ci sarà, non ci verrà chiesto in cosa esattamente avremo creduto (verginità, assunzione in cielo, figlio di Dio, figlio dell’uomo, resurrezione…) ma che cosa esattamente avremo fatto. Se giudizio ci sarà, sarà sull’ortoprassi e non sull’ortodossia. Questo è di grande consolazione e di grande apertura teologica: nessuno impedirà a un ebreo, un mussulmano, un indù, un buddista, un indiano delle praterie l’ingresso nel regno solo perché non riconoscevano Gesù, se avranno operato bene. Ecco allora che questa prospettiva non è poi tanto diversa da quella di Ghandi sulle differenti religioni viste come vie diverse che portano alla stessa meta. Ma il testo evangelico va anche più in là: nessuno impedirà l’ingresso nel regno a chi dice di non credere in nessun dio ma si è comportato con solidarietà nei confronti degli altri viandanti di questo cammino terreno senza costruirsi idoli fasulli cui dedicare la propria vita. Tutti, senza eccezione, siamo potenzialmente chiamati a far parte di questa grande e nuova “opportunità”. Potremmo e vorremo quindi associarci a quanto dice Panikkar (Tra Dio e il Cosmo. Dialogo con Gwendoline Jarczyk, Laterza, (2006) :

“Sono, pertanto assolutamente convinto che il Cristo può essere considerato come il simbolo – cioè la ricapitolazione o il riassunto – di tutta la realtà. Ma anche il Buddha lo è, e altri ancora.”

Non è facile credere questo e, personalmente, non so se lo credo anche se, questo sì, ho un gran desiderio di fede, questo sì sento profondamente, e, più ancora, ho una viva speranza che ci sia data ancora una possibilità perché Egli (cito a braccio) “…riempirà ciò che è vuoto, colmerà ciò che è scarso, drizzerà ciò che è storto, scalderà ciò che è freddo, asciugherà ogni lacrima…e chi spera in questo non sarà confuso in eterno”.

mercoledì 23 gennaio 2008

3. La resurrezione alla luce della fede


Ma tu credi veramente in un’altra vita? Negli ultimi tempi ho rivolto spesso questa domanda ad amici e conoscenti ricevendone risposte di vario tipo: dalla negazione più netta alla fede ferma attraversando posizioni agnostiche e speranze più o meno intense. Ho capito che la domanda, in realtà, è rivolta a me stesso e sento quindi di dovermi dare una risposta. Dunque esiste un’altra vita? Ovviamente non c’è risposta sul piano della ragione. La risposta si colloca nel campo della fede: e quindi mi sembra che la domanda posta in modo più corretto diventa: esiste Dio? E, se esiste, è il Dio padre e amore di cui ci ha parlato Gesù? (o Maometto o altri; non fa molta differenza. Se Dio esiste è unico, sono gli uomini che si dividono e nel suo nome si uccidono). Se Dio esiste allora la resurrezione di Gesù in Cristo è reale e un’altra vita (sulla cui natura non mi interessa affatto riflettere) è possibile: è possibile per tutti (o forse per alcuni) avere un’altra “opportunità”.

Parole molto intense e capaci di commuovere circa le resurrezione le ho trovate nel già citato testo di Panikkar(7) :

“……La resurrezione può cominciare dopo la morte, ma non la resurrezione della carne, poiché questa carne non sarà più. Se la resurrezione cristiana non è qualche cosa che ha luogo qui e ora, vuol dire che non è la resurrezione della carne. La resurrezione non va rinviata a un dopo. La vita eterna non viene dopo il tempo.
……
Ora questa vita infinita non viene dopo la vita finita: essa è la dimensione più profonda della stessa vita presente. Per questo se non vivo “ora” la mia resurrezione, non la vivrò mai. Può esserci un’altra vita; è un problema cosmologico; ma la vita eterna non è la continuazione della vita temporale…….Quelli che non vivono la vita eterna qui e ora devono aver chiaro in mente che non la vivranno mai. La vita eterna non è un futuro (in senso temporale), essa è qui e ora, o non è. L’eternità non è che l’altra faccia della temporalità. Colui dunque che non vive l’eternità nel momento presente non godrà mai della vita eterna.
……
Pensare che ci sia un’altra vita? E’ possibile. Non ne so nulla; ma essa non è la vita eterna. Se vivo la vita eterna qui e ora, questa vita, quando morirò, sarà sempre vita eterna. Il tempo come tale è una realtà che segna una continuazione dell’individuo. Ho trovato un esempio che può forse convincere qualcuno; si tratta di una metafora che ho ritrovato un po’ dappertutto, nelle letterature persiane, indiane, cristiane, ebraiche: quella della goccia d’acqua. Noi siamo gocce d’acqua. Che cosa ne è della goccia d’acqua quando muoio? La goccia scompare. Cade nel pèlagos infinito. Scompari? Ma che cosa sei tu, in realtà, la goccia d’acqua oppure l’acqua della goccia? Durante la nostra vita mortale noi dobbiamo realizzarci come acqua, e non soltanto come goccia.

La goccia è il luogo delle mie lotte, delle mie cadute e delle mie vittorie – di tutto quello che mi causa gioia e sofferenza in forma immediata. Ma se mi realizzo in maniera autentica, se sono in ascolto della realtà che sono in profondità, io sono acqua. Che cosa accade dell’acqua quando la goccia cessa di esistere? Niente. Essa non cessa di essere quello che è. La goccia cade nel mare, ma l’acqua tuttavia non scompare. Quest’acqua certo, non posso più differenziarla dall’esterno; ma, vissuta dal di dentro, se così posso dire, quest’acqua non cessa di essere acqua – la “mia” acqua, l’acqua che io sono. Quest’acqua è unica. Nessun pericolo di dissolvermi. E’ qui il mistero della personalità, che non va confusa con l’individualità”.

23/01/2008

venerdì 18 gennaio 2008

2. La fede come fatto personale




L’impostazione di cui sopra è degna di grande rispetto e premessa necessaria per un vero dialogo con credenti o non credenti. E se dà una risposta su cosa sia la fede, tuttavia non dà ancora una risposta sul come si possa capire se si ha fede o no. In altre parole, esistono, per così dire, uno o più “indicatori” che possano dire se si ha fede oppure no? Uno di questi indicatori mi sembra di averlo trovato tra le righe dello stesso teologo (Raimon Panikkar, La porta stretta della conoscenza. Sensi, ragione e fede, Rizzoli, 2005):

“ …secondo la tradizione cristiana il fatto fisico della resurrezione è centrale nella fede dei cristiani. Dovrebbe essere evidente che la fede nella resurrezione non può essere ridotta all’accettazione della credenza dei primi discepoli che va interpretata come un’esperienza soggettiva che liberò un’energia psichica tale da convertirli in fondatori di ciò che poi si chiamerà “cristianesimo”. L’intero edificio cristiano non può poggiare sulla soggettività di alcuni discepoli, per quanto intensa e sincera possa essere stata la loro esperienza…. la fede deve essere personale e dunque immediata come ogni esperienza esistenziale: non si può accontentare di essere “fede” nella fede di altri, fiducia nella testimonianza di alcuni privilegiati…

…....per esperienza esistenziale si intende la coscienza che tale esperienza trasforma la nostra vita. .…la fede nella resurrezione di Gesù crede nella resurrezione fisica, vale a dire reale, di Gesù di Nazaret; ma se non è accompagnata da un’esperienza personale, non è fede, bensì semplice accettazione di un fatto incomprensibile e praticamente assurdo alla luce della razionalità .
Ecco dunque un punto che mi sembra rilevante e rivelante: la fede come esperienza esistenziale personale e tale da trasformare la nostra vita. Naturalmente il confronto continuo con una comunità di fede non solo non è escluso ma è necessario (“..là dove due o tre saranno riuniti nel mio nome io sarò presente...”). E tuttavia sono giunto alla conclusione che la fede non può non essere un fatto personale che sconvolge (in positivo) e cambia la vita.

In termini di immagine penso che la fede sia come una fiamma che riluce nel buio: più grande la fiamma più grande la fede. Vi deve essere almeno un minimo di riverbero di questa fiamma nel fondo dell’animo che sia in grado di illuminare e dare un senso anche ai momenti più bui e difficili della vita. Sia pure in modo fioco e lontano dobbiamo sentire nel profondo il calore di questa fiamma che dice che tutto ha un senso, anche se non lo capiamo, e che ogni lacrima sarà asciugata, anche se soffriamo.

Se dentro di noi non sentiamo neanche un po’ di tutto questo allora non c’è fede.

18/01/2008

F. Fede




Ma essersi liberati dal “cascame religioso” e condividere un cammino con una comunità che si richiama alla figura di Gesù non significa necessariamente avere fede. Esattamente: cosa è la fede?

1. Ogni essere umano ha fede

Alla domanda di un interlocutore che chiede chiarimenti circa la sua affermazione che “ogni essere umano ha fede”, Raimon Panikkar risponde che (Tra Dio e il Cosmo. Dialogo con Gwendoline Jarczyk, Laterza, 2006):

“Lo affermo in effetti. Mi dia un esempio di un essere che non crede in qualcosa…Quando mi capita di parlare ai cosiddetti non credenti o atei, dico loro sin dall’inizio: “Non lasciatevi attirare nella trappola di una falsa dialettica, per la quale vi si chiama non credenti perché non credete in questo o in quello; voi non credete in A, ma credete in B – credete nell’uomo, credete nella realtà, credete nel fatto che io vi parlo, credete in un avvenire, credete alla donna, alla bellezza, alla scienza…tutto questo fa parte delle vostre credenze, che sono altrettanto rispettabili di quanto lo sono altre credenze. Finiamola una volta per tutte con quella che chiamerei una distinzione di potere, una divisone abusiva fra credenti e non-credenti…”Certo voi non credete in Dio, possiamo discuterne, ma ciò non impedisce che voi pure siete dei credenti.
………
Nel momento in cui identifico la mia fede con la mia credenza, sono un idolatra, ed è molto probabile che divenga un fanatico. Ogni credenza deve essere relativizzata e richiede di essere sottoposta a discussione. Noi identifichiamo fede e credenza dal momento in cui dimentichiamo che la fede è la visione del terzo occhio (“oculus fidei”)e tendiamo di conseguenza a fare della fede un percorso puramente razionale. Le prove dell’esistenza di Dio, a questo livello, sono una bestemmia…..Le famose “cinque vie” di Tommaso d’Aquino non sono prove, bensì appunto vie. In effetti che cosa egli ha prodotto con queste “prove”? Un ragionamento che vuole dimostrare che la credenza in Dio non è irrazionale né irragionevole…….Questo è legittimo ma non prova l’esistenza di Dio; è solo una prova del fatto che la mia credenza in Dio non è una credenza irragionevole.
………
La fede, è altra cosa; essa non si prova. E’ un dono, un’esperienza. E’ immediata. Penso che sia qui la grande sfida a ogni razionalismo. Non c’è mediazione, l’oculus fidei non è l’oculus mentis.

18/01/2008

giovedì 17 gennaio 2008


5. Il cammino fatto

Siamo dunque approdati a una visione moderna e accettabile della fede, che accetta l’esegesi, non confligge con il portato della scienza ed è in grado di recepire i contributi alla Verità portati da chiunque, laico o credente. Una fede che può guardare senza sospetto, anzi con gratitudine, ai contributi di Marx nelle scienze sociali, di Freud nell’analisi del profondo, di Darwin nel miracolo dell’evoluzione e di chiunque altro, oggi e domani, sarà portatore di un tassello più o meno grande di “verità” da aggiungere alla grande mosaico della “Verità” alla quale la specie umana è protesa.

Si può essere cristiani “adulti”, postconciliari capaci di guardare senza imposizioni dogmatiche la realtà scientifica, sociale, psicologica del mondo che ci circonda. Non a tutti, naturalmente, è richiesto di diventare esperti di esegesi per capire esattamente cosa si volesse dire in quel certo brano del vangelo e se quel brano sia da attribuire a Gesù, se sia ricostruzione delle comunità, cosa vuol dire veramente oggi etc. etc. E però è importante, questo sì, che si dica chiaramente, e lo si dica dai pulpiti delle chiese, che l’esegesi è uno strumento indispensabile per leggere le scritture ed evitare i “fanatismi” delle “genti dei libri” (ebrei, cristiani, mussulmani) che leggono alla lettera ciò che è stato scritto in una certa epoca storica con la visione del mondo propria di quell’epoca.

Perché non vedo fede nei comportamenti “fanatici” di tanti che dicono di avere fede: non vedo fede nei capelluti barboni che muovono ossessivamente il capo al muro del pianto, non vedo fede nelle file di schiene prostate verso le Mecca, non vedo fede nelle processioni salmodianti dietro l’icona di un santo o altro. Non mi permetto un giudizio sulle persone, sia chiaro, quello spetta a Dio, se esiste. Ma un giudizio su chi invece di educare tende a mantenere la gente nell’ignoranza e nella superstizione, questo sì va denunciato e combattuto con forza; certo la forza dell’amore, della ragione e dell’esempio e non quella dell’intolleranza.


17/01/2008

4. Senso del tutto?



Le riflessioni sulle religioni e sui problemi dello “spirito” si accompagnano, nel mio personale percorso caratterizzato da una formazione scientifica, con quelle sulla nascita del cosmo e sul senso del tutto. Cercherò di riassumere a grandi linee ciò che mi affascina e pone interrogativi.

L’atomo di idrogeno è l’elemento più diffuso nell’Universo. E’ l’atomo più semplice, con un nucleo (nel quale si concentra praticamente tutta la massa) formato da un solo protone e un vasto spazio circostante occupato da un solo elettrone. Negli spazi interstellari la concentrazione media dell’idrogeno è di circa un atomo per metro cubo: un vuoto talmente spinto che è inimmaginabile pensare di poterlo riprodurre con qualsiasi macchina. Tuttavia, in altre zone dello spazio, la concentrazione è un pò maggiore e, in tali zone, si possono verificare delle “fluttuazioni” di densità e cioè, statisticamente, si può determinare un arricchimento di idrogeno tale da permettere l’origine di deboli forze in grado di attirare altri atomi dagli spazi circostanti. Se la fluttuazione permane e la concentrazione aumenta si crea un piccolo campo gravitazionale che attira quantità sempre maggiori di atomi dall’esterno. E’ iniziato un processo che può durare milioni e milioni di anni durante i quali il campo gravitazionale della massa gassosa di idrogeno (e altre particelle dello spazio tra cui predominano il carbonio e il silicio) cresce continuamente di intensità attirando a velocità sempre maggiori altri atomi dall’esterno mentre la temperatura e la pressione del nucleo centrale aumentano. Ad un certo istante avviene il miracolo: la temperatura e la pressione sono tali che due atomi di idrogeno fondono in una reazione termonucleare generando elio e sprigionando una immensa quantità di energia secondo la famosa equazione di Einstein: si è accesa una stella che splenderà per un tempo variabile da qualche centinaio di milioni a miliardi di anni a seconda della sua natura. Gli atomi di idrogeno continuano a fondere innalzando ancora la temperatura e permettendo l’innesco di altre reazioni termonucleari che portano alla formazione di altri tipi di atomi. In sostanza tutti gli atomi superiori all’idrogeno, e cioè gli atomi di cui è fatta la Terra e di cui siamo fatti noi, provengono dalle reazioni termonucleari delle stelle.
Siamo tutti figli delle stelle non è solo una bella immagine poetica è piuttosto una stringente verità scientifica. Questo “miracolo” non è avvenuto una volta per tutte all’origine dei tempi (al tempo del Big Bang) ma avviene in continuazione e non è impossibile che mentre sto scrivendo una qualche stella si stia accendendo in qualche remota parte dell’Universo.

Una di queste stelle, il nostro Sole, ha circa sei miliardi di anni e una previsione di vita di circa venti miliardi. Attorno al Sole gira un pianeta, la Terra, di circa quattro miliardi di anni. Nessuna forma di vita era possibile sulla Terra nei primi due miliardi di anni. Poi, secondo le teorie più accreditate supportate da esperimenti condotti in proposito, in un “brodo primordiale” acquoso, contenente ammoniaca e anidride carbonica, le scariche elettriche dell’atmosfera hanno permesso la formazione delle prime catene di amminoacidi e successivamente delle proteine che sono i mattoni della vita organica. La vita si è quindi lentamente sviluppata nell’acqua, si è trasferita poi nella terraferma dando origine a tutte le specie estinte e a quelle attuali. Alle ore 23.59 di questa giornata di quattro miliardi di anni è scoccata un’altra scintilla, più importante della fusione dell’idrogeno, nel cervello di un primate. L’uomo ha mangiato il frutto dell’albero della conoscenza e la coscienza di sé, la coscienza del bene e del male ha cominciato ad abitare il pianeta Terra. Forse non è impossibile, di nuovo, che, mentre sto scrivendo, la coscienza si stia accendendo in qualche parte dell’Universo.

Riflettere su queste cose mi sgomenta e affascina nel contempo con un sentimento forse non diverso da quello del poeta (“…tra questa immensità s’annega il pensier mio e il naufragar m’è dolce in questo mare”). Siamo meno di un soffio nell’immensità spazio-temporale dell’Universo e sorge spontanea la domanda se tutto quanto sopra abbia un senso o sia solamente il frutto del caso. E’ possibile che sia solo frutto del caso: è possibile che non esista un senso del tutto. Ma provo una istintiva ripugnanza di fronte a tale possibilità: io credo o, meglio, spero vivamente che un senso esista. E se c’è un significato nella storia dell’Universo, allora Dio esiste e può esserci un’altra vita. Questo soddisfa il mio intelletto e la fede non confligge con quanto la scienza ci dice o ci dirà nel futuro.

17/01/2008

lunedì 14 gennaio 2008

3. L’approdo a una “comunità”



Il Concilio Vaticano II è uno di quegli eventi storici che mi ha fatto pensare che se “…lo Spirito soffia dove vuole…”, può soffiare anche in Vaticano e, quella volta, ha di certo soffiato da quelle parti! Dai semi gettati nel Concilio è fiorita una letteratura, dentro la Chiesa e ad opera, spesso, di gente di Chiesa, che cercava di coniugare la modernità con la Parola e che cercava di tirare fuori, dalle pastoie di testi scritti in un’altra epoca da uomini di altre culture, il Messaggio perennemente vero. I campi toccati da questa letteratura spaziavano su tutto. Sul piano sociale politico in relazione ai problemi col marxismo (ad es. José Maria Diez-Alegria, Credo nella speranza, Mondadori, 1973; Giulio Girardi, Cristianesimo e marxismo, Cittadella editrice, 1972); sul piano ragione-fede (ad es. Hans Kung, Essere cristiani, Mondadori, 1976; e Dio esiste?, Mondadori, 1980); sul piano dell’incontro fede-inconscio (Eugen Drewerman, Psicanalisi e teologia morale, Queriniana, 1993; e I funzionari di Dio, Raetia, 1995), tanto per citare qualche teologo che ha avuto una considerevole influenza sul mio percorso di fede.

Senza il Concilio di Giovanni XXIII (uno dei più grandi papi dell’intera storia della Chiesa, a mio avviso) non sarebbero sorte quelle che vengono chiamate le “comunità di base” e senza l’approdo a una comunità di base non mi sarebbe stato possibile continuare una tradizione pietista in una chiesa convenzionale media (che pure ogni tanto frequento, anche oggi, e senza spirito di sufficienza). Con il percorso sopra descritto, sono approdato alla Comunità di base di S. Paolo all’inizio degli anni 80 (comunità sorta attorno alla figura dell’ex abate della basilica di S. Paolo Giovanni Franzoni). E’ stata la “prassi” della Comunità a liberarmi definitivamente dal “cascame religioso”. Una prassi fatta da un approccio liberante non formalistico (assemblea eucaristica che può essere presieduta da una donna; niente paramenti o incensi; la nuda parola del vangelo confrontata con la quotidianità e commentata da tutti; le parole “magiche” eucaristiche pronunciate coralmente con uno dei canoni spontanei prodotti dalla nostra o da altre Comunità….). Per me è stata una grande esperienza di liberazione interiore. E’ stato un grande passo avanti di cui ringrazio Dio, se esiste, e la Comunità di S. Paolo, che certamente esiste.

Non voglio dare, sia chiaro, un’immagine edulcorata delle comunità di base dove tutto va bene, regna la piena armonia tra i fratelli e le sorelle nella fede e dove aleggia sempre lo Spirito. Tutt’altro; la natura umana è quella che è: la comunità non è esente da gelosie, ripicche, battibecchi, sciatterie e tutto quello che volete. Ma il tratto di fondo è che il minestrone lo prepariamo noi e ne siamo responsabili ogni volta. Il minestrone può venire fuori più o meno buono: dipende da noi; dalla nostra serietà, attenzione, concentrazione, capacità autocritica e spirito di rinnovamento. Non si tratta della sempiterna minestra fornita da un pulpito e somministrata da un “funzionario di Dio” gestore del “sacro” (per usare un’immagine di Drewerman) e separato dai problemi della realtà.

sabato 12 gennaio 2008

Islam


Ragionamenti non dissimili si possono fare su altre religioni. Nel suo ponderoso volume sull’Islam (Hans Kung, Islam, passato presente e futuro, Rizzoli, 2005), il grande teologo traccia un’accurata ricostruzione storico-teologica di questa importante religione monoteista che pone a suo fondamento, in comune con l’ebraismo e il cristianesimo, la figura di Abramo.

Oltre un certo approfondimento di conoscenza rispetto alle reminiscenza scolastiche (che non andavano più in là della fuga a Medina del Profeta Maometto, l’Egira del 622 dopo Cristo), la lettura del testo mi ha suscitato due riflessioni di fondo. La prima riguarda la storia dell’islam, una religione che ha riunito le tribù arabe che, superata la fase tribale, hanno diffuso col filo della spada la parola del Profeta dando origine a un impero che si estendeva dalla Spagna ai confini con l’Iran. In altre parole, una storia di massacri intestini e conquiste violente a spese degli “infedeli” anche se, una volta ottenuta una conquista, gli islamici hanno spesso governato con tolleranza. Questa prima riflessione ne ha suscitato una di riflesso circa il campo cristiano: a parte la fase delle origini, non è forse altrettanto vero che l’Europa si è massacrata per secoli in guerre di religione con i vincitori che dichiaravano eretici i perdenti?

La seconda riflessione riguarda il giudizio circa la situazione attuale dell’Islam. Il teologo afferma ciò che appare evidente a tanti e cioè che l’Islam è rimasto fermo al “paradigma” medioevale (anche se lo dice da par suo con un’inoppugnabile documentazione e senza spirito di polemica, anzi con grande spirito di dialogo). Non so se in campo islamico sia davvero cominciata quella fase di riflessione esegetica dei testi che, da più di due secoli, ha permesso al cristianesimo di evolversi, sia pure con grandi resistenze, dal paradigma medioevale al paradigma dell’era moderna. Certo è che il fondamentalismo islamico assomiglia tremendamente all’atteggiamento della chiesa che suo tempo metteva al rogo chi usciva dal seminato.

Non mi risulta che il testo di Kung, certamente noto ai teologi islamici, abbia suscitato le riprovazioni che è stato capace di sollevare Benedetto XVI all’Università di Ratisbona con una lezione nella quale, in fondo, sollevava problemi analoghi a quelli del teologo. Verrebbe da sottolineare che chi ha certe responsabilità non può permettersi di dire ciò che pensa l’uomo comune o, per altri versi, il teologo letto dai suoi pari.

Infine, una terza riflessione sulla figure dei due fondatori: Gesù e Maometto. La figura di Gesù mi appare, fondamentalmente, la figura di un mite anche se capace di durezze nei confronti dei custodi del Tempio. Grande e ineguagliabile mi appare la sua libertà di fronte ai poteri del mondo. Di infinita misericordia il suo atteggiamento nei confronti delle debolezze umane e l’orizzonte di valori da lui tracciato, e di cui abbiamo parlato, indelebile e perenne nel tempo. Molto diversa la figura di Maometto:dopo la fuga dalla Mecca alla Medina diventa in poco tempo il capo indiscusso religioso, politico e militare. Un guerriero dunque e poco importa stabilire se Maometto stesso abbia ucciso qualcuno; quello che è certo è che, come capo politico, è responsabile della lotta e sterminio di fazioni avverse (ebrei e altri) che si opponevano ai suoi disegni.

Ma possiamo escludere che se il Dio dell’antico testamento (quel dio “geloso” del suo popolo al quale ha permesso lo sterminio di avversari per la conquista della Terra Promessa”), ha parlato a Israele in quel certo modo, lo stesso Dio non possa aver parlato ai beduini tramite Maometto? Allora forse vale quanto detto all’inizio citando Ghandi: che le religioni, nella loro accezione storica, sono date da Dio in un certo modo necessario per quel popolo in quelle date condizioni.
12/01/2008

mercoledì 9 gennaio 2008

2. Sulle religioni

Alcune osservazioni sulle religioni in senso storico e cioè con riferimento all’apparato “teologico-cultuale” che accompagna ogni religione (narrazione delle origini, manifestazione del divino, liturgia, preghiere, dogmi, precettistica, etc. etc. ). Ciascuno nasce in una certa epoca, allevato in una certa cultura e cresce con un certo imprinting culturale inclusa la sfera religiosa. E’ aperta la questione se le religioni, a partire da quelle tribali, al politeismo dei greci sino al monoteismo delle epoche più recenti (ebraismo, cristianesimo, islam), siano la necessaria risposta dell’uomo al bisogno di trascendenza e costituiscano una spinta all’elevazione della specie o non siano piuttosto un antico retaggio, sostanzialmente negativo, che nasce dall’ignoranza dell’inspiegabile e dalla paura della morte.

Qualcuno, come Dawkins, grande biologo di fama internazionale che si definisce “ateo militante”, sostiene, fondamentalmente, che le religioni siano perniciose e rendano l’uomo sostanzialmente fanatico e intollerante (Richard Dawkins, L’Illusione di Dio, le ragioni per non credere, Mondadori, 2007). Senza seguirlo sul suo terreno, non si può non riconoscere che abbia delle valide ragioni. Sono nato cristiano e cattolico nel XX secolo, riconosco alla Chiesa cattolica di aver conservato e tramandato un “deposito di verità” perché è certo che quello che so di Gesù viene necessariamente da quel deposito. Al di là di questo, mi pare estremamente difficile sostenere che l’attuale configurazione della chiesa e il suo svolgimento storico da dopo l’editto di Costantino abbia molto a che spartire con la figura di Gesù che, tra l’altro e per certo, non ha fondato una chiesa. Questa analisi, che può sembrare un po’ impietosa, mi sembra fondamentalmente vera.

A conclusioni simili del resto sono giunti autorevoli teologi cristiani. In particolare Eugen Drewerman che sostiene la necessità di coniugare le istanze della psicologia del profondo e le prospettive liberanti del messaggio della fede (Psicanalisi e teologia morale, Queriniana, 1993). Ne consegue una forte denuncia della paura della Chiesa del mondo della psicanalisi, della sessualità e delle donne (norme procreative, celibato….). In un altro testo (I funzionari di Dio, Raetia, 1995), il teologo attacca con veemenza le strutture del potere ecclesiastico che non conducono alla libertà ma alla sottomissione e all’angoscia. E i sacerdoti sono preparati ad essere dei “funzionari di Dio” che gestiscono il sacro e parlano d’amore. Ma quando l’amore si manifesta per una persona vicina se ne ritraggono per paura o lo vivono nella clandestinità (le conseguenze di tali posizioni non si sono fatte attendere, Drewerman è stato privato non solo dell’insegnamento, come Kung, ma ridotto allo stato laicale).

E’ esattamente l’idea che ho maturato e sperimentato negli anni e cioè che nel suo complesso la Chiesa non è una istituzione che libera ma che opprime le coscienze.

9/01/2008

lunedì 7 gennaio 2008

E. Alcune considerazioni al contorno




Il cammino sin qui fatto ha permesso di mettere in evidenza, con alcuni esempi importanti, due piani profondamente diversi che emergono dalle letture dei testi sacri (nel nostro caso i vangeli, ma la logica può essere estesa ad altri testi sacri). E cioé il piano degli insegnamenti universali (l’orizzonte dei valori) e il piano delle credenze sorte nell’ambito dei seguaci di Gesù, tramandate dapprima oralmente, poi scritte in un lasso di tempo di svariati decenni dopo la sua morte (per gli apocrifi la distanza dalla morte sale anche a due secoli). I due piani non vanno mai confusi e, per quanto riguarda l’esegesi, è necessario un ulteriore approfondimento.

1. Sull’esegesi

In campo cristiano, la ricerca storica si occupa di Gesù da quasi tre secoli e l’esegesi, che definirei come un vaglio che deve separare il messaggio perenne dalle scorie culturali e mitologiche del tempo in cui i testi furono scritti, da quasi altrettanto. E’ evidente che dal momento in cui si assume , giustamente, il criterio del vaglio esegetico, nulla può più essere preso alla lettera di quanto leggiamo nei testi. Il dubbio che un miracolo, un fatto narrato, un detto riportato siano realmente avvenuti è doveroso. E, su questa china, l’alea del dubbio si estende, giustamente, su tutto quanto riportato perché l’esegesi, per quanto spinta e accurata, non riuscirà mai a mettere un “timbro” di autenticità storica su quasi nulla. Anche se, naturalmente, vi sono delle doverose distinzioni e l’esperto saprà dire, oggi, e ancor più domani, ciò che ha certamente attendibilità storica, ciò che ha una plausibilità storica, ciò che è probabilmente costruzione delle prime comunità e ciò che è sicuramente leggenda.

Ma la persona comune, alla ricerca dell’insondabile e di qualcosa che lo trascende; la persona comune alla ricerca della fede non può essere chiamata a vagliare, come lo studioso, ciò che è attendibile da ciò che non lo è. Non si rischia, a forza di “interpretare” e “relativizzare” tutto (per usare un termine alla moda) alla ricerca del “vero” di “perdere” la fede?

Insomma torniamo alla domanda iniziale: brancoliamo nel buio? E’ istruttiva in proposito la domanda che si pone Kung nel suo Essere cristiani, (Mondadori, 1976): “Che cosa vale per Gesù?”, e cioè che cosa deve fare chi vuole porsi alla sua sequela?:

Norma suprema non è una legge morale di ordine naturale….Non è imputabile a una carenza di riflessione teologica il fatto che Gesù non muova, per legittimare i suoi precetti, da una natura immutabile, che si presume riconoscibile con sicurezza e in cui tutti gli uomini si ritroverebbero accomunati. L’attenzione di Gesù è rivolta non a natura umana astratta, ma al singolo uomo concreto. …..(Gesù) non pensa di derivare da eventuali strutture costanti e immutabili di una siffatta natura umana leggi fondamentali dell’agire, immutabili e universalmente valide: principi primi, da cui si possano poi dedurre, più o meno direttamente, altri principi, in modo che tutti insieme forniscano una risposta univoca per ogni possibile caso di teologia morale (in materia di proprietà privata, famiglia, stato, sessualità, divorzio, pena di morte…..)”

E potremmo aggiungere, oggi, in materia di fecondazione assistita, clonazione, eutanasia….

L’orizzonte di valori, quello sì rimane immutabile e perenne. Ma tale orizzonte esce dal vicolo cieco, per altri versi estremamente meritorio, delle interpretazioni esegetiche. La fede, per chi la sperimenta, non è una interpretazione; la fede è un incontro.

Personalmente mi sembra che il prius, il fondamento(della fede) non è la resurrezione di Gesù, ma l’esistenza di un Dio padre e amore che questo può aver permesso per l’eternità. Se si assume questa ottica diventa poi facile dire, come già visto con Ghandi, che il tronco della religione è uno ma i rami, le varie religioni, sono tante e sono dettate dalle condizioni storiche, ambientali e anche climatiche. Potremmo e vorremo quindi associarci a quanto dice Panikkar (Tra Dio e il Cosmo, Laterza, 2006):

“Sono, pertanto assolutamente convinto che il Cristo può essere considerato come il simbolo – cioè la ricapitolazione o il riassunto – di tutta la realtà. Ma anche il Buddha lo è, e altri ancora.”

7/01/2008

domenica 6 gennaio 2008

3. Morte di Gesù. Resurrezione?



Come afferma Barbaglio nella citata indagine storica (Giuseppe Barbaglio, Gesù ebreo di Galilea, EDB, 2002), la morte in croce di Gesù è un punto fermo della ricerca storica. Negli annali di Tacito si legge che: “Tiberio imperitante per procuratorem Pontium Pilatum supplicio adfectus erat”. Ed è proprio Gesù che subì il “supplizio” sotto Ponzio Pilato. Altro la storia non può dire. La fede nel risorto nasce dopo, ad opera dei discepoli e delle discepole e a seguito di avvenimenti del tutto particolari, cui abbiamo già accennato, e sui quali torneremo. Ora sorge un’altra domanda: se le testimonianze storiche fossero più stringenti sarebbe più facile credere alla resurrezione di Gesù?

Non credo che il problema si ponga su questo piano. Vale la pena, in proposito, riportare quanto elaborato in un recente documento della Comunità di S. Paolo (Se una Chiesa testimonia la risurrezione di Gesù, Contributo al IV Convegno ecclesiale italiano di Verona del 2006, Distribuzione CIPAX 2006):

“Potrebbe essere buona per un film di successo..…se 2000 anni fa……ci fossero state telecamere puntate sul sepolcro di Gesù, ad un certo punto della notte misteriosa esse avrebbero potuto riprendere l’istante della risurrezione o, comunque, essendo Gesù forse invisibile, documentare almeno il fracasso di una pesante pietra sepolcrale che rotolava via smossa come una piuma da una mano potente e misteriosa, e poi var vedere agli spettatori ammirati la tomba vuota….ma - noi pensiamo - seppure le telecamere ci fossero state non avrebbero potuto documentare lo straordinario, in quanto l’inaudito era già accaduto….”

Mi sembra che sia molto ben espresso che la resurrezione non è e non sarà mai un fatto certificabile sul piano storico perché si colloca su un piano che non è contro la ragione ma al di là della ragione: il piano della fede.

venerdì 4 gennaio 2008

2. Miracoli?


Molto istruttivo in proposito può essere la lettura del grande teologo Hans Kung Kung (Essere cristiani, Mondadori, 1976), le cui posizioni non proprio ortodosse sono state all’origine dei suoi conflitti con la curia del vaticano (tra l’altro sospensione dall’insegnamento all’università di Tubinga).

Riassumo a modo mio ciò che ho letto più di trenta anni fa e che non ho bisogno di rileggere perchè Kung mi ha offerto una visione razionale della fede che sento ormai acquisita e facente parte della mia personale visione del mondo e della cose della fede.

Dunque i miracoli. Molto probabilmente Gesù ha effettuato guarigioni, in particolare quelle legate a stati mentali (del tipo indemoniati), non differentemente da altri taumaturghi esistiti in ogni epoca. Tuttavia ho una grande difficoltà a pensare ai miracoli come a sospensioni delle leggi della natura. Davvero con pochi pani e pesci sono state sfamate centinaia di persone? Beh, forse il racconto allude al bisogno della condivisione più che a una reale moltiplicazione di materia (non c’è un solo miracolo che riferisca di “creazione di materia”, che so, la ricomparsa di un arto amputato). E così di questo passo nell'interpretazione di tanti altri racconti dei vangeli. E di fronte al miracolo più grande: la resurrezione di Gesù? Paolo dice che se Cristo non è risorto la nostra fede è vana. Hans Kung dice che non si tratta di un “risuscitamento” del corpo ma dell’assunzione di Gesù in una “realtà diversa”. E mi trova fondamentalmente d’accordo. D’altronde che gli stessi vangeli canonici in tema di resurrezione siano alquanto nebulosi è un dato di fatto. Com’è possibile che due discepoli camminino con Lui per qualche ora e non lo riconoscano? E’ una cosa senza senso: è evidente che il risorto, il Cristo, è altro dal Gesù conosciuto in precedenza (e si possono portare altri esempi del genere sempre tratti dai vangeli).
In definitiva una fede vera, per quanto io sento, non può fondarsi sui miracoli (ma non escludo che questi possano avvenire).

04/01/2008