mercoledì 9 gennaio 2008

2. Sulle religioni

Alcune osservazioni sulle religioni in senso storico e cioè con riferimento all’apparato “teologico-cultuale” che accompagna ogni religione (narrazione delle origini, manifestazione del divino, liturgia, preghiere, dogmi, precettistica, etc. etc. ). Ciascuno nasce in una certa epoca, allevato in una certa cultura e cresce con un certo imprinting culturale inclusa la sfera religiosa. E’ aperta la questione se le religioni, a partire da quelle tribali, al politeismo dei greci sino al monoteismo delle epoche più recenti (ebraismo, cristianesimo, islam), siano la necessaria risposta dell’uomo al bisogno di trascendenza e costituiscano una spinta all’elevazione della specie o non siano piuttosto un antico retaggio, sostanzialmente negativo, che nasce dall’ignoranza dell’inspiegabile e dalla paura della morte.

Qualcuno, come Dawkins, grande biologo di fama internazionale che si definisce “ateo militante”, sostiene, fondamentalmente, che le religioni siano perniciose e rendano l’uomo sostanzialmente fanatico e intollerante (Richard Dawkins, L’Illusione di Dio, le ragioni per non credere, Mondadori, 2007). Senza seguirlo sul suo terreno, non si può non riconoscere che abbia delle valide ragioni. Sono nato cristiano e cattolico nel XX secolo, riconosco alla Chiesa cattolica di aver conservato e tramandato un “deposito di verità” perché è certo che quello che so di Gesù viene necessariamente da quel deposito. Al di là di questo, mi pare estremamente difficile sostenere che l’attuale configurazione della chiesa e il suo svolgimento storico da dopo l’editto di Costantino abbia molto a che spartire con la figura di Gesù che, tra l’altro e per certo, non ha fondato una chiesa. Questa analisi, che può sembrare un po’ impietosa, mi sembra fondamentalmente vera.

A conclusioni simili del resto sono giunti autorevoli teologi cristiani. In particolare Eugen Drewerman che sostiene la necessità di coniugare le istanze della psicologia del profondo e le prospettive liberanti del messaggio della fede (Psicanalisi e teologia morale, Queriniana, 1993). Ne consegue una forte denuncia della paura della Chiesa del mondo della psicanalisi, della sessualità e delle donne (norme procreative, celibato….). In un altro testo (I funzionari di Dio, Raetia, 1995), il teologo attacca con veemenza le strutture del potere ecclesiastico che non conducono alla libertà ma alla sottomissione e all’angoscia. E i sacerdoti sono preparati ad essere dei “funzionari di Dio” che gestiscono il sacro e parlano d’amore. Ma quando l’amore si manifesta per una persona vicina se ne ritraggono per paura o lo vivono nella clandestinità (le conseguenze di tali posizioni non si sono fatte attendere, Drewerman è stato privato non solo dell’insegnamento, come Kung, ma ridotto allo stato laicale).

E’ esattamente l’idea che ho maturato e sperimentato negli anni e cioè che nel suo complesso la Chiesa non è una istituzione che libera ma che opprime le coscienze.

9/01/2008

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