lunedì 14 gennaio 2008

3. L’approdo a una “comunità”



Il Concilio Vaticano II è uno di quegli eventi storici che mi ha fatto pensare che se “…lo Spirito soffia dove vuole…”, può soffiare anche in Vaticano e, quella volta, ha di certo soffiato da quelle parti! Dai semi gettati nel Concilio è fiorita una letteratura, dentro la Chiesa e ad opera, spesso, di gente di Chiesa, che cercava di coniugare la modernità con la Parola e che cercava di tirare fuori, dalle pastoie di testi scritti in un’altra epoca da uomini di altre culture, il Messaggio perennemente vero. I campi toccati da questa letteratura spaziavano su tutto. Sul piano sociale politico in relazione ai problemi col marxismo (ad es. José Maria Diez-Alegria, Credo nella speranza, Mondadori, 1973; Giulio Girardi, Cristianesimo e marxismo, Cittadella editrice, 1972); sul piano ragione-fede (ad es. Hans Kung, Essere cristiani, Mondadori, 1976; e Dio esiste?, Mondadori, 1980); sul piano dell’incontro fede-inconscio (Eugen Drewerman, Psicanalisi e teologia morale, Queriniana, 1993; e I funzionari di Dio, Raetia, 1995), tanto per citare qualche teologo che ha avuto una considerevole influenza sul mio percorso di fede.

Senza il Concilio di Giovanni XXIII (uno dei più grandi papi dell’intera storia della Chiesa, a mio avviso) non sarebbero sorte quelle che vengono chiamate le “comunità di base” e senza l’approdo a una comunità di base non mi sarebbe stato possibile continuare una tradizione pietista in una chiesa convenzionale media (che pure ogni tanto frequento, anche oggi, e senza spirito di sufficienza). Con il percorso sopra descritto, sono approdato alla Comunità di base di S. Paolo all’inizio degli anni 80 (comunità sorta attorno alla figura dell’ex abate della basilica di S. Paolo Giovanni Franzoni). E’ stata la “prassi” della Comunità a liberarmi definitivamente dal “cascame religioso”. Una prassi fatta da un approccio liberante non formalistico (assemblea eucaristica che può essere presieduta da una donna; niente paramenti o incensi; la nuda parola del vangelo confrontata con la quotidianità e commentata da tutti; le parole “magiche” eucaristiche pronunciate coralmente con uno dei canoni spontanei prodotti dalla nostra o da altre Comunità….). Per me è stata una grande esperienza di liberazione interiore. E’ stato un grande passo avanti di cui ringrazio Dio, se esiste, e la Comunità di S. Paolo, che certamente esiste.

Non voglio dare, sia chiaro, un’immagine edulcorata delle comunità di base dove tutto va bene, regna la piena armonia tra i fratelli e le sorelle nella fede e dove aleggia sempre lo Spirito. Tutt’altro; la natura umana è quella che è: la comunità non è esente da gelosie, ripicche, battibecchi, sciatterie e tutto quello che volete. Ma il tratto di fondo è che il minestrone lo prepariamo noi e ne siamo responsabili ogni volta. Il minestrone può venire fuori più o meno buono: dipende da noi; dalla nostra serietà, attenzione, concentrazione, capacità autocritica e spirito di rinnovamento. Non si tratta della sempiterna minestra fornita da un pulpito e somministrata da un “funzionario di Dio” gestore del “sacro” (per usare un’immagine di Drewerman) e separato dai problemi della realtà.

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